sabato 19 dicembre 2009

Quando si arrabbia il cielo

QUANDO SI ARRABBIA IL CIELO

Era una bella giornata nel Paese Dove Non Piove Mai, come sempre del resto. Ogni cosa era al suo posto e il sole splendeva alto, gli uccelli parlavano fra loro con la felicità del canto, il vento si divertiva a fare il solletico agli alberi e tutto intorno c’era una pace che faceva invidia al cielo.

Nel cielo, infatti, ondeggiavano placide un paio di grandi nuvole bianche, di quelle nuvole spumose che sembrano panna montata. Si riposavano in pace, il giorno dopo dovevano partire per l’Africa e avevano deciso di rilassarsi un po’ prima del lungo viaggio. Erano due nuvole molto pettegole e in quel momento stavano parlando male delle nuvole di altri paesi, di quanto alcune di loro fossero grandi ed arroganti, che sembrava che volessero il cielo tutto per loro, come se non ci fosse abbastanza spazio per tutti, e in particolare se la prendevano con le nuvole americane, che non rispettano mai la precedenza e sorpassano tutte le altre senza preoccuparsi che una magari s’è appena rifatta l’acconciatura. Le due nuvole chiacchieravano così, una di fianco all’altra e nel frattempo si divertivano ad assumere le forme più strane: una tartaruga, un uomo che dorme, un bisonte in corsa e così via, tanto per farsi due risate.

Ad un certo punto spuntò dal nulla una nuvoletta piccola e molto arrabbiata. Era scura e con la faccia cattiva, sputava fulmini da tutte le parti e, non contenta, produceva anche dei grandi rumori con la bocca che facevano tremare la terra. Il suo arrivo portò grande scompiglio, quello era il paese dove non piove mai e, come dice il nome, non erano certo abituati a vedere in giro delle teste calde come quella. Infatti, tanti anni prima, avevano firmato un patto col comitato del cielo e avevano stabilito che in quel paese niente e nessuno sarebbe mai venuto a disturbare. Invece la piccola nuvola arrabbiata era proprio lì, e sembrava che non gliene importasse niente di quelle regole, avanzava nervosamente nel cielo del paese dove non piove mai come se nulla fosse, con tutto il suo carico di rabbia e pioggia.

Le due grandi nuvole bianche si voltarono immediatamente, scandalizzate da quella fastidiosa presenza che violava tutte le convenzioni e ignorava ogni buona decenza. Decisero così di andarle incontro e quando le furono abbastanza vicine iniziarono a rimproverarla: “Ma ti sembra questo il modo? Non lo sai che nel paese dove non piove mai è vietato disturbare?” La nuvoletta, che al confronto con quelle nuvolone sembrava un sassolino davanti ad una montagna, non si fece intimidire dal tono minaccioso e rispose: “Certo che lo so! Sono venuto a posta per dare fastidio! E non me ne importa un fico secco dei vostri divieti! Perché chiunque può venire a darmi fastidio e io non posso reagire? Perché sono piccola? Sarò anche piccola ma sono così arrabbiata che mi sento dieci volte più grande di voi!”

E mentre pronunciava queste parole continuava a lanciare fulmini e far cadere tanta pioggia da allagare una casa. Le due nuvolone, colte di sorpresa da tutta quella furia, cambiarono tattica e cercarono di capire cosa fosse successo: “Aspetta, non essere precipitosa, calmati!”, disse una, e l’altra appresso: “Raccontaci cos’è che ti ha fatto arrabbiare in questo modo, forse possiamo aiutarti”. La nuvoletta, senza smettere neanche un secondo di scaricare in terra tutto il suo risentimento, rispose: “L’unico modo che avete per aiutarmi è lasciarmi perdere o al massimo, se proprio ci tenete, datemi una mano a far scendere tanta acqua da affogare un oceano!” “Ma gli oceani non possono affogare!” disse la più paziente tra le due, e la nuvoletta subito replicò: “Allora se gli oceani non possono affogare neanche il fuoco si può bruciare, ma questo non vuol dire che una povera nuvola indifesa debba subire tutti i torti del mondo senza mai reagire!”

Nel paese dove non piove mai, intanto, era scoppiato il caos generale. Non avendo mai visto cadere una goccia di pioggia in vita loro, quando si sentirono bagnati pensarono che fosse la fine del mondo. Tutti: alberi, animali, fili d’erba e sassi cercavano conforto nel proprio vicino, e pensavano che quegli spilli bagnati che cadevano dal cielo significassero la loro fine imminente. Non che mancasse l’acqua, c’era un bel fiume nel paese dove non piove mai, da cui tutti bevevano e che provvedeva ad innaffiare le piante; il fatto è che non avevano mai provato la sensazione di essere bagnati da qualcosa che cade dal cielo, e quindi potrete capire il gran parapiglia che si era creato. Chi si buttava nel fiume, chi piangeva e chi girava su se stesso come impazzito, era tutto un fuggi-fuggi nella baraonda generale. La nuvoletta nel frattempo continuava testarda a fare di testa sua: fulmini e tuoni e pioggia a non finire. E mentre si sfogava continuava a parlare: “Ma dico io! Ma è mai possibile? Me ne stavo tutta tranquilla a fare le bolle di sapone nel bel mezzo di una delle giornate più serene che il cielo ricordi, e che succede?” “Cosa?” fecero le due nuvole bianche. “Succede che uno di quegli aeroplani infernali decide bene di mettermi al centro della sua traiettoria e mi fa un buco grande così proprio in mezzo alla pancia! Lo sapete quanto tempo ci mettiamo noi nuvole prima di ricomporci come si deve! E che fastidio dover andare a recuperare tutti i pezzi in giro! E poi quante volte glielo abbiamo detto a questi uccelloni con il motore?Va bene sopra, va bene sotto, ma mai in mezzo!” le due nuvolone si scambiarono un cenno d’accordo e dissero: “Eh, beh...questo è vero!” “Certo che è vero!” continuò la nuvoletta: “E passi una volta…due giorni dopo me ne stavo felice a parlare col vento del sud dei prossimi spostamenti, avevo appena finito di recuperare tutti i miei piccoli pezzi…e cosa succede?” “Cosa?” chiesero in coro le nuvolone.

“Succede che uno di quei razzi spaziali punta dritto verso di me, io cerco di avvisarlo, gli faccio dei gesti e quello niente. Poi provo a spostarmi ma quell’attrezzo è troppo veloce e…paf! Un altro buco in mezzo alle orecchie, ancora più grande del primo! E quando è troppo è troppo!”. Le nuvolone si lanciarono un segnale d’approvazione, non si poteva certo darle torto. Anche a loro erano capitati episodi simili e bisognava ammettere che era proprio una cosa fastidiosa. Inoltre, come tutte le nuvole pettegole, non avevano una gran personalità e bastava molto poco per convincerle.

La nuvoletta nel frattempo non accennava a calmarsi e così gli animali andarono a chiamare il Vento di Guardia, un vento speciale che aveva il compito preciso di tenere la situazione sotto controllo e di scacciare via le nuvole impertinenti nel caso ce ne fosse stato bisogno. Il vento di guardia raggiunse in un attimo le tre nuvole, la piccola infuriata e le due grandi che le davano corda, e subito le rimproverò con tono deciso: “Cuccus’è tuttu questu baccanu, eh?” disse il vento che non aveva imparato bene il linguaggio delle nuvole “U vugliamu facciamula finitula? Nun sapetu cù vietatu farci disturbu da questu parti di qua? Smettutula subbutu o vi soffio via in un momentu!” “Non è giusto!” urlò la nuvoletta, “Tu stai qui a difendere gli abitanti della terra, e a noi abitanti del cielo chi ci pensa?”

Le due nuvole bianche ormai erano completamente schierate dalla parte della loro sorellina, e si misero in mezzo per impedire al vento di guardia di spazzarla via. Ogni secondo che passava si arrabbiavano anche loro, fino a quando non diventarono due immense nuvolone grigie cariche di pioggia. Il vento provò ad opporsi con tutte le forze: “Fatula finitula! In questu paesu nessunu piovu! Mai!”; ma quando una delle due nuvolone scaricò il primo lampo e subito dopo fece un urlo da fare impallidire una strega, il vento si battè in ritirata, spaventato e con la coda tra le gambe.

Fu così che si scatenò il primo temporale nel paese dove non piove mai. E che temporale! La voce si sparse subito ed altre nuvole arrabbiate si unirono alle loro compagne fino a coprire il cielo. Pioggia e fulmini e tuoni per una settimana. Tutti gli abitanti del paese dove non piove mai, dopo aver capito che quella non era la fine del mondo e che le gocce in fondo non potevano fargli alcun male, iniziarono a divertirsi come dei matti. Festeggiavano la novità e ballavano sotto l’acqua. Gli alberi videro spuntare nuove foglie, gli animali ne approfittarono per darsi una bella lavata, e la nuvoletta arrabbiata alla fine si calmò, e grazie alla sua ribellione il mondo un pochino migliorò.


Storia di: Massimo Tiburli Marini

venerdì 15 maggio 2009

il Pollicottero sulla Strada del Vento

IL POLLICOTTERO SULLA STRADA DEL VENTO


In un piccolo paesino sperduto tra le colline del Chissadove, proprio vicino al grande bosco del Meglio di No, c’era una lunga strada dritta di cui nessuno era mai riuscito a vedere la fine, si perdeva dritta nel paesaggio fino all’orizzonte, come se fosse il lunghissimo braccio di un gigante che un giorno era passato di lì, s’era sdraiato in terra e non aveva più avuto voglia di andarsene. Non c’era una casa né una fattoria lungo quella strada, non una capanna e nemmeno un crocevia, niente la attraversava e niente la disturbava. Era lì, silenziosa, sola e dritta, da un lato la costeggiavano gli alberi più esterni del bosco, dall’altro un piccolo fiume le scorreva di fianco e campi verdi a perdita d’occhio.

Gli abitanti del paese non si avventuravano mai lungo quella strada, ne avevano paura come si ha paura di ciò che non si conosce, e per questo avevano iniziato a raccontare strane leggende, storie di paura che servivano ai grandi per spaventare i bambini, storie di gente partita e mai più ritornata, storie di tempeste e mostri che sorprendevano i viandanti che osavano avventurarsi per quella strada. Aldilà di queste favole c’era però un fatto strano che nessuno riusciva a spiegare: visto che nessuno ci passava mai, la strada dopo qualche tempo avrebbe dovuto riempirsi d’erbacce e piante, la natura avrebbe dovuto ricoprirla come fa di solito quando le si lascia la possibilità. E invece no, neanche per niente. Il tracciato della strada, i sassolini ai due lati separati da una striscia centrale di erba verde, erano sempre lì, perfetti e precisi come se ci passassero mille automobili al giorno. Per questo motivo gli abitanti del paese l’avevano soprannominata LA STRADA DEL VENTO.

Dicevano, infatti, che di notte, quando nessuno lo poteva vedere, un forte vento passava a spazzare via ogni tentativo d’invasione, e sradicava con cura ogni piccola erbaccia fuori posto, ogni notte, da anni e anni. E così la strada del vento se ne stava là, dritta e silenziosa, e nemmeno lei sapeva quando finiva né dove portava, quanto fosse lunga o perché fosse lì. C’era e basta, come tante cose nel mondo che non hanno bisogno d’alcun motivo per esistere, e sono felici così. Come una stella marina o un gatto pasticcione.

A proposito di animali, dovete sapere che in quella zona, proprio dentro il bosco del Meglio di No, viveva un piccolo e buffo animale, unico nella sua specie, un animaletto dalla forma strana, chiamato IL POLLICOTTERO. A vederlo da lontano poteva sembrare un pollo come tanti: piume marroni, becco a punta e zampe di gallina. Un particolare però lo rendeva davvero speciale: al posto delle piccole ali sui fianchi il nostro animaletto aveva una piccola elica piumosa sopra la testa, proprio come quella degli elicotteri. Ed ecco spiegato il suo nome.

Grazie a quest’elica il pollicottero era in grado di alzarsi da terra e spiccare dei piccoli voli, di solito di pochi metri, anche perché per far muovere l’elica doveva concentrarsi moltissimo, strizzava gli occhi e tratteneva il respiro, e tutto ciò gli costava davvero tanta fatica. Il pollicottero era anche un po’ pigro e mangiava solo una volta la settimana, inoltre era un animale molto triste e brontolone. Chi lo avesse incontrato per sbaglio, avrebbe sentito un continuo borbottare, un lamento senza fine su quanto difficile e faticosa fossa la vita di un pollicottero. In realtà passava tutto il giorno nel bosco a dormire e prendere il sole, e non aveva altra preoccupazione che quella di lisciarsi le piume. Si comportava così perché si sentiva solo, non aveva amici perché tutti gli animali del bosco pensavano che gli piacesse stare solo e anche, a dire il vero, molti di loro lo prendevano in giro a causa del suo buffo aspetto. Non aveva neanche una famiglia, era nato da un uovo in cima ad un albero, e nessuno sapeva come ci fosse finito né chi ce lo avesse portato. Del resto in giro per il bosco non si era mai visto qualcuno o qualcosa che gli assomigliasse solo un pochino.

Così un bel giorno, accompagnato dal suono del suo brontolare, decise di uscire dal bosco, di andarsene via senza neanche sapere bene il perché. Forse per cercare la sua famiglia, forse perché si era stancato di mangiare semi di betulla, o forse solo perché aveva voglia di cambiare aria. Fu così che il pollicottero si ritrovò tutto solo lungo la strada del vento, zampettava a testa bassa e ad ogni passo si sentiva più triste e solo, in quello spazio immenso, lungo quella strada che non finiva mai. Stava già per decidere di tornare indietro quando un piccolo sbuffo di vento lo colpì da dietro, fece ruotare la sua elica quel tanto che bastava per fare un piccolo salto in avanti. Il pollicottero era sorpreso e felice, per la prima volta nella vita era riuscito a volare senza sforzarsi neanche un po’. Incoraggiato da questa novità decise di proseguire, e ogni volta che si stancava, si scoraggiava e ricominciava a brontolare, un soffio di vento sempre più forte lo spingeva avanti.

Oramai il giorno stava per finire e il sole, rosso per la vergogna di essere così bello, stava scendendo lentamente dietro l’orizzonte per andare a riposarsi, quando il pollicottero si fermò in mezzo alla strada del vento, deciso a scoprire il mistero di quelle spinte che lo facevano volare, chi fosse e perché voleva farlo continuare lungo una strada che non portava da nessuna parte? Allora gonfiò il petto, alzò la testa, gettò uno sguardo intorno e con quanta più voce aveva in corpo urlò: “SI PUÓ SAPERE COSA VUOI DA ME? CHI SEI?? DOVE MI VUOI PORTARE??? FATTI VEDERE SE NE HAI IL CORAGGIO!!!” Disse questo tutto d’un fiato e tirò un lungo respiro subito dopo aver finito, non aveva mai detto tante parole a voce alta in una volta sola.

Per un po’ ci fu solo silenzio, poi quando il pollicottero stava per andarsene sconsolato, il vento soffiò fortissimo e lo alzò da terra come mai prima di quel momento, lo spinse altissimo e lo tenne lì, sospeso in aria come una mongolfiera. Dalle correnti d’aria in pochi secondi iniziò a formarsi il profilo di un volto: il volto del vento della strada del vento. Due occhi e allegri e i capelli mossi, con una voce che sembrava un soffio parlò: “Amico mio, come te son solo anch’io. Neanche un secondo posso star fermo E la mia vita sembra un inferno. Porto le foglie, le nuvole e i fiori Sperando che qualcuno di me s’innamori. Per la mia strada mai una persona Né brutta né bella né buffa né buona. Resta con me e sarai sempre in volo Viaggeremo insieme e non sarai più solo”. Con queste parole il vento si placò, posò in terra il pollicottero che, un po’ stordito, si mise a pensare. Gli servì poco tempo, un sorriso e una scrollata di piume e il suo destino era già deciso. Ancora oggi si raccontano storie di un pollo volante sulla strada del vento, alcuni dicono che sono solo favole, altri giurano di averli visti volare, insieme, il vento e il suo amico lungo la strada che non finisce mai.


STORIA: Massimo Tiburli Marini
DISEGNI: Susanna TIburli Marini

Perchè?

PERCHÉ?


Nei sobborghi di una grande città viveva un gruppo di animali liberi. Una vecchia fabbrica abbandonata era la loro casa. In città tutti sapevano che quando un animale veniva abbandonato quello era l’unico posto dove poteva rifugiarsi. Gli animali che avevano la fortuna di avere una famiglia ne parlavano con terrore, come un luogo fantastico di paura dove si finiva quando si faceva un torto al proprio padrone. In realtà gli animali che ci vivevano non se la passavano così male. Certo, all’inizio se l’erano vista brutta, ognuno di loro pensava di non riuscire a sopportare il dolore di essere stato abbandonato, e passavano i primi giorni a disperarsi e a chiedersi cosa mai avessero fatto per meritarsi quel destino. Poi, superata la disperazione e mossi dalla fame, raggiungevano la famosa fabbrica degli animali, dove subito qualche anziano ospite gli spiegava che non era colpa loro se erano stati abbandonati, che gli uomini a volte sono crudeli, e che in fondo per loro poteva cominciare una nuova vita.

E infatti era proprio così.
La libertà è come un mare di caramelle, come un aquilone che perde il filo e vola verso il cielo, è una cosa immensa che può fare impazzire dalla gioia o spaventare per la profondità. Tutti gli animali, dopo aver provato questa sensazione non sarebbero tornati indietro neanche per tutte le polpette del mondo! Nessuno gli diceva cosa fare, dove dormire o quando mangiare, non dovevano aspettare nessuno per fare una passeggiata né essere sgridati se gli scappava un bisogno. Perciò vivevano felici, senza litigare tra loro: cani, gatti, pappagalli, serpenti, procioni, tigrotti, canarini, pesci e anche un vecchio orso bruno, sempre tranquillo e sonnacchioso, il saggio del gruppo. Si chiamava TOTÓ. A lui si rivolgevano gli altri animali quando c’era un problema da risolvere o quando avevano bisogno di un consiglio.

Un bel giorno un nuovo ospite arrivò alla fabbrica d
egli animali, era un piccolo cagnolino, dalle zampe corte e le orecchie lunghe, così lunghe che gli cadevano sempre davanti agli occhi, lui soffiava con la bocca e quelle ricadevano giù. Si chiamava GEPPO e quando arrivò alla fabbrica degli animali era stanco morto, affamato, triste e disorientato. Si era perso per strada e non era riuscito a farsi dare indicazioni perché, diceva, dopo un po’ nessuno voleva rispondere alle sue domande, e presto capiremo perché.

Tutti gli animali si fecero intorno per dargli il benvenuto e lui, non appena si trovò circondato da tutte quelle facce nuove, riprese entusiasmo ed energia, cominciò a scodinzolare e prese a fare domande:”perché siete qui?” Un vecchio gatto gli rispose:”per darti una buona accoglienza!”, Geppo, senza neanche aspettare che quello avesse finito, attaccò:”e perché siete così tanti?” allora il pappagallo, con la sua voce a cantilena disse:”perché tanti sono gli animali che vengono abbandonati” e Geppo:”e perché siete stati abbandonati?”, intervenne un simpatico cane lupo:”perché i nostri padroni si erano stufati di tenerci con loro”. Senza dare un attimo di tregua Geppo continuò:”e perché non siete arrabbiati?”, questa volta fu il serpente a rispondere:”perché abbiamo capito che stiamo benissimo senza padroni”. Con tutta questa raffica di domande, alcuni animali cominciarono ad infastidirsi e alcuni di loro se ne andarono un po’ scocciati borbottando a bassa voce:”ma cosa vuole questo? È appena arrivato e ci fa l’interrogatorio!”. I più pazienti invece restarono lì, mentre Geppo continuava senza sosta:”perché avete scelto una fabbrica? Perché lui ha una zampa storta? Perché il canarino non canta? Perché? Perché?? Perché???”. Oramai non aspettava neanche le risposte, sembrava una macchinetta rotta sulla valvola del perché.

Gli animali lo osservavano sconvolti, quando BIRBA, un gatto sveglio e grande osservatore, fece notare al suo vicino un particolare che era sfuggito a tutti: una macchia sul muso di Geppo, proprio sopra il naso, aveva la forma perfetta di un punto interrogativo. Incuriosito da quella strana coincidenza, Birba approfittò di un momento in cui Geppo stava riprendendo fiato dalle sue mille domande, e lo bruciò sul tempo:”perché chiedi sempre perché?” gli domandò. Ci fu un attimo di silenzio. Geppo, colto di sorpresa, rimase immobilizzato come una statua di gesso, gli occhi spalancati e un’espressione incredula. Restò così per un po’, mentre tutti lo fissavano divertiti. Poi tutto d’un tratto, come colto da un’ispirazione, cominciò a ripetere la stessa domanda con tutta la voce che aveva in corpo:”perché chiedo sempre perché? Perché chiedo sempre perché? Perché chiedo sempre perché?”. Geppo era andato in tilt come un videogioco, non poteva far altro che ripetere all’infinito la stessa domanda, la domanda delle domande.

Gli animali che erano rimasti fino a quel momento, pensarono che il povero cagnolino avesse perso definitivamente l’uso della ragione, e un po’ alla volta lo abbandonarono con un’alzata di spalle al suo destino interrogativo. Sul fondo, appoggiato ad una parete a prendere il sole, se ne stava in disparte Totò, il vecchio orso, che aveva assistito a tutta la scena senza mai intervenire. Quando tutti se ne furono andati, e il povero Geppo girava su se stesso continuando a chiedere al vento:”perché chiedo sempre perché?”, Totò si alzò con grande calma e si avvicinò a lui con passi così lenti che sembravano al rallentatore, lo fece fermare posandogli la sua enorme zampa sul muso, lo guardò dritto negli occhi e rispose alla domanda che Geppo gli rivolgeva ormai disperato:”tu chiedi sempre perché…perché è nella tua natura. Sei un PERCANE. Vedi questo punto interrogativo sul tuo muso? È il segno inconfondibile che contraddistingue GLI ANIMALI DEL PERCHÉ.

Gli animali del perché sono nati per fare domande, e ogni risposta che ricevono non serve ad altro che a far nascere in loro una nuova domanda. Ma non essere triste, appartieni ad una specie di eletti e non sei solo. Gli animali del perché sono cercatori di verità, e la loro curiosità serve a tutti gli altri per riflettere sulla realtà e non accontentarsi di risposte facili. Non dare retta a quelli che ti dicono che un vero animale non deve chiedere mai, visto che per sapere qualcosa bisogna prima avere il coraggio di chiederla!”.

Per la prima volta in tutta la sua vita Geppo era riuscito ad ascoltare senza interrompere, ma appena Totò ebbe finito di dire quelle parole, non ce la fece a trattenersi e chiese:”perché non riesco più a smettere di chiedere perché?”. Totò, col suo faccione buono, non fece una piega e disse:”la sete di conoscenza di un animale del perché può essere saziata soltanto bevendo l’acqua limpida che scorre nel FIUME DELLE RISPOSTE che si trova nel PAESE DELLA VERITÁ. È quello il posto dove devi andare, lì incontrerai i tuoi simili, e se sarai abbastanza fortunato potrai avere la risposta che risponde a tutte le domande dell’universo.”. Geppo stavolta sembrava convinto e decise di partire immediatamente per raggiungere il paese della verità. Prima di andare Totò gli spiegò la strada, lo avvertì dei mille pericoli che avrebbe incontrato lungo la via e gli consegnò due frutti per sfamarsi durante il viaggio, due frutti speciali: le pere del sapere. Gli disse di mangiarne un pezzettino ogni volta che una domanda lo avesse tormentato, e per un po’ la sua fame si sarebbe placata.

Fu così che Geppo, dopo aver ringraziato il vecchio Totò, partì determinato a raggiungere quel posto magico in cui avrebbe finalmente trovato una risposta per ogni domanda. Il viaggio fu lungo e stancante, molte volte fu tentato di tornare indietro e cominciava a chiedersi:”perché devo faticare così tanto? Perché questo paese non arriva mai?” e via dicendo. Allora si fermava, mangiava un boccone delle pere del sapere e trovava la forza per continuare. Un bel giorno, quando ormai le pere stavano per finire e Geppo era sempre più tormentato da un milione di domande, vide finalmente il segnale che Totò gli aveva indicato per capire che era arrivato: “non ti puoi sbagliare, vedrai una grande roccia dalla forma di punto esclamativo proprio in mezzo a due montagne”, gli aveva detto, “ dietro quel punto comincia il paese della verità!”.

Una volta arrivato Geppo vide davanti a sé un paesaggio meraviglioso: prati verdi e alberi pieni di frutti, fiori e farfalle, laghi e cascate e tanti animali diversi quanti non ne aveva mai visti prima. Tutti con un punto interrogativo sul muso proprio come il suo: c’erano il PERCAVALLO, IL PERCERVO, IL PERCONIGLIO, IL PERCASTORO, IL PERCALABRONE, IL PERCINGHIALE e tanti altri ancora. Chi dormiva, chi mangiava, chi giocava e chi guardava le nuvole, ognuno era felice e soprattutto nessuno aveva domande da fare. Geppo restò a bocca aperta per qualche secondo, poi si avvicinò ad un PERCERBIATTO e chiese:”perché nessuno domanda niente qui?”, il percerbiatto non si prese neanche la briga di rispondere, gli fece un sorriso e con un gesto della testa indicò il fiume delle risposte dietro di lui. Geppo capì al volo e si precipitò a bere l’acqua del fiume magico. Ne bevve finché poté, finché si ritrovò una pancia così gonfia da non riuscire più a muoversi. Si sdraiò sull’erba, fece un ruttino e si accorse che tutti gli animali si erano radunati intorno a lui. Un varco si aprì tra la folla, e Geppo vide rotolare in mezzo agli animali del perché un enorme punto verde con due occhi e una bocca. Il perconiglio fece le presentazioni:”caro amico percane, ecco a te l’inventore di questo splendido posto: IL PERCERTO!”. Il percerto fece una grande risata, aspettò che Geppo si riprendesse un attimo e poi gli chiese:”come ti senti?” e Geppo:”benone!” “e perché?” fece il percerto. Geppo ci pensò un secondo, si guardò intorno e rispose:”perché ho capito che l’unica risposta è che non c’è un perché!” Da quel giorno Geppo divenne a tutti gli effetti un animale della grande famiglia del paese della verità, dove meno ci si affanna e meglio si sta. STORIA: Massimo Tiburli Marini
DISEGNI: Susanna TIburli Marini